L’uomo che piantava gli alberi – La perla preziosa… DOMENICA 18 NOVEMBRE 2018

Il programma prevedeva, come ospite, Fausto Desalu, che, con grande dispiacere, ha dovuto in
questi giorni declinare l’invito per la convocazione della nazionale italiana di atletica. Complimenti!
Ti aspettiamo in una prossima occasione.

Abbiamo chiesto la disponibilità ad EFREM MORELLI, che ringraziamo di cuore.
Pilota di motocross dall’età di 14 anni (un titolo italiano e tre partecipazioni all’Europeo 250cc), è
rimasto vittima a 20 anni di un incidente in occasione del campionato italiano che gli ha causato la
lesione del midollo rendendolo paraplegico. Ha cominciato a praticare nuoto quale forma di
terapia e si è appassionato; è il 2005 quando Efrem fa il suo debutto in una gara ufficiale. Da quel
momento diventa un punto di riferimento della squadra nazionale conquistando 32 titoli italiani e
stabilendo 20 primati nazionali. Partecipa a tre Mondiali e due Europei, alle Paralimpiadi di
Pechino nel 2008 e a quelle di Londra nel 2012 e agli Europei di Eindhoven, in Olanda, festeggia la
sua prima medaglia importante, il bronzo nei 100m rana.
Rio 2016 i suoi tanti sacrifici sono premiati: Efrem conquista un bronzo 50 m rana SB3.

Tra vita ed esperienza. Quali parole per racontarle?

Il primo incontro di TDS è stato inaugurato dall’ospite Silvano Petrosino, professore di Antropologia Religiosa e Media e Teorie della Comunicazione presso l’università Cattolica di Milano.

A lui abbiamo chiesto di aiutarci a introdurci al tema della narrazione, che sarà il leitmotiv di questa edizione di Traiettorie di Sguardi. In particolare di approfondire il legame tra esperienza e narrazione. Il polo problematico di questo legame, a detta del professore, non è tanto la narrazione, quanto l’esperienza.
Come la definisce Cassirer, infatti, l’esperienza dell’uomo è sempre una trama aggrovigliata.
Pensiamo al rapporto tra uomo e cibo. Per l’uomo mangiare un piatto di pasta non è mai solo mangiare un piatto di pasta, perché legato ad esso ci sono ricordi, sapori, emozioni, passioni, ma anche sofferenze e traumi, sensi di colpa. Quel piatto di pasta è abitato.

L’uomo, rispetto a tutti gli altri esseri viventi, è elemento di complicazione: l’animale non digiuna, non soffre di anoressia, né di bulimia, non discrimina tra cose pure e cose impure.

La narrazione diventa importante proprio perché non banalizza l’umano ma lo riesce a dire, è alla sua altezza. Il vantaggio della parola rispetto al numero è che riesce a descrivere l’esperienza, riesce a cogliere l’intreccio e la complessità dell’uomo.

È anche per questo che Dio ha scelto la parola per creare, non ha paura di chiamare le cose con il loro nome, ha scelto la narrazione per rivelarsi.

La parola però permette anche l’introduzione della menzogna e dell’imbroglio. Questo è un ulteriore elemento di complessità introdotto dall’uomo e che fa parte della sua esperienza.
La drammaticità dell’esperienza umana raggiunge così il suo culmine, e nonostante questo Dio ha scelto di incarnarsi e di condividere con l’uomo tutte le cose, sia quelle belle che quelle spregievoli.

Narrazione ed Esperienza – DOMENICA 21 OTTOBRE 2018

DOMENICA 21 OTTOBRE 2018

Narrazione ed Esperienza

Egli parlò loro di molte cose…

L’uomo ama raccontare storie, ma perché? Quale è il nesso profondo che lega, non la vita, ma l’aggrovigliata trama dell’umana esperienza alla narrazione? Una breve riflessione sul logos narrativo dell’esperienza che l’uomo compie della vita».

Ospite

SILVANO PETROSINO

Insegna Antropologia Religiosa e Media e Teorie della Comunicazione all’Università Cattolica di Milano. Tra le sue ultime pubblicazioni si segnalano: Le fiabe non raccontano favole. Credere nell’esperienza (il melangolo, Genova 2017), Contro la cultura. La letteratura, per fortuna (Vita e Pensiero, Milano 2017), Contro il post-umano. Ripensare l’uomo, ripensare l’animale (in collaborazione con M. Iofrida, EDB, Bologna 2017).

L’INCONTRO CON LA PAROLA

Domenica 18 marzo si è concluso il percorso di Traiettorie di Sguardi per questa stagione
2017/2018 dedicata la tema dell’incontro con l’altro.

L’ospite di domenica è stato il monaco eremita fratel Moreno Pollon che ha guidato la platea di
giovani alla scoperta della Parola del Vangelo. Il metodo che lui propone si potrebbe definire
maieutico e non didattico: la Parola non si spiega, si interroga e solo interrogandola si riesce a
coglierne il senso profondo.

Partendo dalla lettura del brano di Marco (7, 31-37) e interrogando e spezzando il testo della
Parola abbiamo così capito che al centro di questo episodio – ma non solo – non c’è la guarigione
del sordomuto ma l’incontro di Gesù con l’altro, un incontro che spiazza, in cui Gesù non fa mai
quello che gli viene chiesto: Gesù incontra l’altro (sordomuto, cieco, adultera…) lontano dalle folle,
mettendosi in ascolto del suo desiderio, della sua storia, di ciò che vuole veramente, perdendo
tempo, sbagliando strada perché questo incontro possa esserci ed esserci compiutamente.

Incontrando l’altro come lo incontra Gesù possiamo davvero sperimentare la bellezza, la
grandezza e la pienezza dell’incontro, che non è mai scontato.

L’ARTE DELL’INCONTRO: UNA PROSPETTIVA BIBLICA

Provare a sostare sulla soglia delle Scritture. Sotto la loro “crosta”! Alla scoperta di uno stile che permette lo stupore dell’altro. Scavare e ascoltare la Parola dentro lo “sta scritto”, per accedere ad un volto di Dio che cerca e incontra l’uomo al cuore del suo vivere, concretissimo, di ogni giorno.

Ospite

FRATEL MORENO POLLON – Vive come monaco-eremita, accompagnato spiritualmente dalla comunità monastica di Bose. Dal 2007 nell’eremo della Ghisiola a Castiglione delle Stiviere, Mantova.

Dio e i giovani oppure Dio o i giovani?

L’ultimo incontro di Traiettorie di Sguardi si è svolto domenica 11 febbraio. L’incontro titolava “Dio
e i giovani: un silenzio assordante”: a tentare di rompere questo silenzio sono stati invitati Simone
Ferrari, giovane insegnante di religione ed educatore, e Giacomo Ghisani, responsabile dell’Ufficio
Amministrativo di Radio Vaticana.

Simone provocatoriamente ha esordito dicendo che il problema non sono né Dio né i giovani ma
quella congiunzione “e” che li lega, che potrebbe essere facilmente sostituita con una “o”. A
complicare ulteriormente il rapporto interviene il fatto che questa relazione – per quanto possibile
– sia da pensare oggi, nel 2018, e soprattutto in un mondo in cui moltissime relazioni sono
mediate dagli smartphone.
Secondo Simone la fatica di entrare in relazione con Dio è dovuta al fatto che è diventato difficile
innanzitutto relazionarsi con gli altri uomini, con l’altro.

Giacomo ha condiviso con la platea dei giovani un’analisi di come è cambiato il modo di
comunicare la fede con papa Francesco, che fin dal suo esordio ha dimostrato un’oratoria irrituale
e una straordinaria aderenza alla quotidianità, che si concretizza in cinque stili del suo linguaggio:
esso diventa rimediazione tra il contesto e il contenuto, strumento per far vedere le cose in una
luce nuova e trasfigurata, è sempre autentico, diretto e colloquiale, lascia all’altro la libertà della
risposta perché il destinatario non è visto come “terreno di conquista” ma come interlocutore
libero; infine il linguaggio del papa è sempre coerente con i gesti che compie e ogni parola da lui
pronunciata è essenziale, mai di troppo.

Quello che più si è perso, soprattutto con l’introduzione delle nuove tecnologie è il tempo e il
senso dell’attesa e del silenzio. Silenzio che serve a mettersi in contatto con se stessi che è la
condizione indispensabile per entrare in relazione con l’altro, lasciandosi contaminare dall’altro e
per aprirsi anche a Dio.

DIO E I GIOVANI: UN SILENZIO ASSORDANTE

Si tratta di sostare, sul capitolo delle comunicazione della fede ai giovani. I linguaggi fino ad oggi utilizzati sono troppo distanti da quelli con cui tutti i giorni i giovani comunicano, conoscono, lavorano, vivono. C’è la necessità di linguaggi interattivi, che recuperino diverse dimensioni: quella spirituale, quella culturale e quella del servizio e approfondire alcuni sentieri particolarmente significativi dei moderni strumenti di comunicazione.

Ospiti

GHISANI GIACOMO – Vice Direttore Generale della Segreteria per la Comunicazione.

SIMONE FERRARI – 28 anni, docente di IRC, educatore collaboratore della pastorale giovanile di Bergamo.

Io sono Caino. Ultimo appuntamento di TDS all’insegna della giustizia

L’ultimo incontro di Traiettorie di Sguardi di quest’anno, dal titolo Io sono Caino, ha avuto come

ospite il docente di Diritto Penale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Luciano Eusebi.

Il professore Eusebi ha aiutato i giovani presenti in sala a capire come il nostro modello di giustizia,

quello che si ispira all’immagine della bilancia, non possa rispondere in modo esaustivo a tutti i

reati che vengono compiuti, in Italia, ma non solo.

La domanda esistenziale di fronte alla quale tutti prima o poi si ritrovano è: che senso si deve dare

alla presenza del negativo?

A questa domanda la giustizia, o meglio l’idea che abbiamo di giustizia, risponde con la logica del

corrispettivo: al bene si risponde col bene, al male con il male.

Ma questo modello entra in crisi da quando l’umanità possiede gli strumenti per autodistruggersi: la

logica del corrispettivo rischia dunque di spingere l’umanità sull’orlo del baratro e di diventare un

moltiplicatore del male.

Anche il diritto penale si regge su questa logica: infatti, al reato viene corrisposta una pena basata

sulla durata della sofferenza in carcere.

Tuttavia questo modello porta in sé delle contraddizioni. Innanzitutto tende a cancellare la

consapevolezza dei fattori che favoriscono la criminalità: cioè, anziché agire sui fattori che

permettono il delinquere, si agisce direttamente su chi ha commesso il reato; in secondo luogo si

dimentica che la maggior parte dei reati viene commesso per soldi: sarebbe utile un diritto penale

che vada dunque a toccare gli interessi dei criminali, come accade in Germania dove i ¾ dei reati

viene punito con pene pecuniarie. In terzo luogo è contraddittorio pensare che si possa fare

prevenzione al crimine attraverso l’intimidazione della pena. La prevenzione funziona solo in quei

paesi che riescono a tenere elevato il tasso di rispetto della norma per scelta anziché per paura; che

non rispondono al male commesso con azioni che vanno a contraddire i principi e i valori su cui si

regge il paese stesso.

E’ anche per questo motivo che la giustizia deve tentare la strada del recupero di chi ha commesso

reato, perché una persona recuperata è un testimone di legalità molto più credibile di chiunque altro,

soprattutto all’interno dell’ambiente in cui ha commesso il reato stesso.

La detenzione deve rimanere dunque come extrema ratio, ma insieme ad essa vanno pensate pene

diverse.

La riposta al reato potrebbe dunque essere un progetto, cioè una pena prescrittiva, un fare, un

percorso. La strada intrapresa dalla giustizia riparativa è dunque quella di “rendere giusto qui e ora

un rapporto che non lo è stato”, attraverso alcune modalità che già esistono, in particolare nel

minorile, come la cosiddetta messa alla prova.

Il professor Eusebi propone dunque una nuova immagine rappresentativa della giustizia che è quella

del ponte che unisce due sponde tra le quali c’è una distanza, una frattura. Il reato provoca una

frattura più o meno profonda, ma la risposta a questa frattura può essere anche il tentativo di

colmarla ricostruendo un dialogo, ridando un’identità tanto alla vittima quanto al criminale.

L’immagine della giustizia come bilancia si è appropriata anche della fede cristiana: la salvezza

come compensazione del male, la croce come culmine di sofferenza per l’espiazione del peccato

dell’uomo. In verità ciò che è salvifico è l’amore non la croce: ciò che salva non è il male patito da

Cristo in croce, ma l’amore, cioè il progetto di bene che viene portato a suo compimento nonostante

il male.

Beati gli operatori di pace

L’ultimo incontro di TDS, che si è tenuto domenica 17 gennaio, ha ospitato la piéce teatrale Piero.

Poetiche di guerra, uno spettacolo della Compagnia dei Piccoli, formata da Mattia Cabrini,

Marco Rossetti e Giacomo Ruggeri, che si sono liberamente ispirati alla canzone di De Andrè La

guerra di Piero.

Lo spettacolo dà modo di riflettere sull’identità del nemico, di interrogarsi su di lui, ma anche sulla

natura stessa della guerra.

Non ci sarebbe guerra, senza un nemico che si oppone, che deve essere eliminato. Ma il nemico ha

anch’egli una storia, un progetto di vita, dei sogni.

La scena dello spettacolo è collocata nell’ambito della Prima guerra mondiale, dal punto di vista di

soldati italiani; viene messa in luce, all’inizio, la gran voglia di partire da parte dei soldati, di

partecipare a questo conflitto, l’aspettativa smisurata su quanto potesse essere facile e veloce la

vittoria. Ma rimane comunque sullo sfondo un interrogativo: perché il soldato deve partire? Vale la

pena rischiare di perdere tutto? Sarà dunque insistente nella testa dei soldati quella domanda:“Ci

torneremo a casa?”.

Emerge dunque la paura dei soldati in trincea: vivono una condizione disumana, quasi

un’ossessione per quella vita di stenti ma anche per la paura di essere sempre sotto tiro, quasi come

se la morte potesse sopraggiungere da un momento all’altro. Questa condizione è vissuta anche

dalla popolazione, nelle guerre contemporanee, soprattutto ora che si parla di terrorismo: nulla è più

sicuro, nessun luogo sembra essere preservato. Vittime di guerra al giorno d’oggi sono soprattutto i

civili.

Sollecitati e provocati dallo spettacolo si è dunque riflettuto su chi è nemico oggi, e su come il

cristiano è chiamato ad essere in opposizione operatore di pace.

La pace è un dono di Dio, gli operatori di pace non sono solo figli dell’uomo ma figli di Dio, hanno

una radice diversa, attingono la loro identità, non dal confronto e dallo scontro con l’altro uomo, ma

con l’Altro per eccellenza che è Dio Padre. Per questo possono essere chiamati figli.

QUANDO NON BASTANO LE PAROLE – Corpo e anima in movimento

Domenica 20 dicembre TDS ha ospitato la riflessione di Monica Farnè, coreografa e Marianna Bufano, psicologa. Il presupposto da cui sono partite è che corpo e mondo interno sono una cosa sola, in costante collegamento e risonanza. 

La danza, di cui entrambe sono esperte, nasce da uno spostamento, non solo del corpo ma anche del mondo interno di chi danza e che vuole trasmettere anche a chi osserva, al pubblico.

A partire da qui sono stati esaminati due movimenti che accomunano il corpo ma anche il nostro cuore, simbolo del mondo interno: l’oscillazione e la fluttuazione.

Si oscilla sempre tra due polarità: gioia e dolore, bellezza e bruttezza, speranza e disperazione. Non si è mai una di queste due polarità, ma il cuore ha la capacità di stare nell’oscillazione.

Anche il corpo oscilla, a maggior ragione se è un corpo danzante.

L’altro movimento è la pulsazione: il nostro mondo interno è pulsare tra il ritiro e la socialità, il dentro e il fuori, il chiudere e l’aprire, l’io e il te. Per il corpo questo pulsare è l’avvicinarsi e l’allontanarsi.

Anche la purezza non è statica, non è quella dei metalli, ma è capacità di stare nella pulsazione e nell’oscillazione, capacità di aprirsi al mondo, di aprirsi alla relazione.

“Beati i puri di cuore…perché vedranno Dio”: l’unica immagine di Dio sulla terra è l’uomo, il riconoscimento di Dio passa attraverso l’uomo, l’altro che si incontra e che si ha al proprio fianco.