Sono forse io il custode?

Il penultimo incontro di Traiettorie Di Sguardi, avvenuto il 16 febbraio, si apre con il brano evangelico del giudizio universale, il quale ci invita a riflettere sul tema protagonista della serata: “ero carcerato e siete venuti a trovarmi”. Ospite dell’incontro, infatti, è Maria Gabriella Lusi, impiegata dal ’97 nell’amministrazione penitenziaria italiana e, da alcuni mesi, direttrice del carcere di Piacenza. Il suo impegno nel sostegno e nella promozione del valore e dell’importanza della missione “rieducativa della pena”, così come prevista dall’articolo 27 della Costituzione Italiana, emerge in modo significativo sin dalle sue prime parole: Maria, attraverso un doppio sguardo, professionale e umano, definisce il carcere “contesto istituzionale” e, al contempo, “organizzazione vivente”, un ambiente, cioè, che “in quanto luogo di vita, prima che di lavoro, non si interrompe mai nei suoi servizi e nei suoi compiti”. A tal proposito, descrive i due macro-obiettivi verso i quali le sue competenze tentano di dirigersi: la qualità della vita dei carcerati e la qualità del lavoro offerto dai professionisti e dagli operatori che vi lavorano.

Ciò diventa possibile nel momento in cui si considera il carcere come un vero e proprio crocevia di sguardi, ciascuno dei quali risulta fondamentale per offrire ai detenuti quella custodia, intesa non come relazione asettica e di mero controllo, bensì come relazione di cura, rispetto e fiducia da coltivare continuamente. Il paradosso più diffuso all’interno del contesto detentivo, dice Maria Gabriella Lusi, è proprio quello di pensare che il rispetto delle esigenze del detenuto comporti inevitabilmente un aumento dei rischi per la sicurezza. Il suo lavoro dimostra, al contrario, che mostrare loro il rispetto di cui hanno diritto in quanto persone conduce ad un allentamento delle responsabilità e dei rischi legati alla sicurezza per gli operatori coinvolti, oltre ad essere un fondamentale punto di partenza per un fecondo percorso rieducativo. Questo aspetto emerge in modo profondo nella lettera che Maria ha ricevuto da un ergastolano del carcere di Voghera presso cui lei lavorava come dirigente, e che durante la serata condivide con noi. Il detenuto esprime gratitudine e riconoscenza a Maria per aver permesso a lui, come ad altri detenuti, di poter scattare una foto insieme ai figli e appenderla in camera, dando loro la “possibilità di vedere da vicino ciò che è lontano”: la famiglia, la spensieratezza, la libertà, gli affetti.

Il trattamento rieducativo dei carcerati, che ha come scopo fondamentale il loro reinserimento sano all’interno della società, non può esistere senza il riconoscimento di persone al di là dei colpevoli e non può avvenire senza una rete relazionale formata, oltre che dai rapporti interpersonali quotidiani tra i detenuti, da operatori, educatori ed enti territoriali e del terzo settore, con il quale, ci racconta l’ospite, vi è una sinergia continua, proficua e positiva.

È soprattutto sull’importanza dell’incontro, infatti, che ci invita a riflettere Maria in risposta alla confidenza fattale dall’ergastolano nella lettera: è la mancanza dell’”esempio”, di una reciprocità positiva, il vero rischio, ciò che porta il brutto all’interno delle carceri. Il riconoscimento dell’altro come detentore di dignità e competenze spendibili, nei confronti del quale nutrire fiducia e poter investire è il principio che muove Maria Gabriella Lusi, in qualità di cittadino, prima che di dirigente, a interessarsi e curarsi della reintegrazione del recluso all’interno della società.

Solo cose belle

Il primo incontro di Traiettorie Di Sguardi del nuovo anno si apre con un importante monito: “il mondo cambia nella misura in cui ognuno di noi cambia”. Sono le parole di don Oreste Benzi, fondatore dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, dal 1968 impegnata a contrastare emarginazione e povertà. Ospiti della serata sono Francesca Benzi e Primo Lazzari, esponenti dell’Associazione e testimoni di un percorso di vita fatto di famiglia e condivisione. Da 43 anni, infatti, la loro è una genitorialità aperta e accogliente nei confronti di persone che, a causa di molteplici disagi fisici o psichici, necessitano di vivere il dono della famiglia.

Una famiglia normale, come sottolinea più volte Francesca, in cui, tra le incombenze quotidiane, si venga amati per quello che si è e che risponda al profondo bisogno di appartenenza che abita in ognuno di noi. L’occasione è stata donata loro grazie all’incontro tra Primo, allora in servizio civile come obiettore di coscienza, e don Oreste, il quale gli propose di occuparsi di un ragazzo con schizofrenia, fino ad allora affidato ad un prete poi partito per una missione all’estero. A partire da quel momento, sotto la guida del sacerdote, iniziarono questo cammino di accoglienza e condivisione, aprendo le porte di casa ai “matti”.

Le difficoltà iniziali furono molte, prima fra tutte la diffidenza del resto della comunità. A mostrarcelo, l’incipit di Solo cose belle, film di recente produzione che tenta di narrare l’incontro tra i membri di una casa-famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII e i cittadini di un piccolo paese della Romagna tra pregiudizi, timori e perplessità. Nei primi anni della casa-famiglia raccolta intorno a Francesca e Primo, inoltre, la moderna Legge Basaglia sulla chiusura dei manicomi ha reso la loro esperienza di apertura e inclusività ancora più difficile, per gli altri, da metabolizzare. Ciò soprattutto durante la scelta dei due volontari di sposarsi e concepire propri figli senza rinunciare a quella che, a tutti gli effetti, era diventata per loro una scelta di vita, la “genitorialità aperta”.

Quella che secondo molti sarebbe stata una scelta poco saggia si è, invece, rivelata un prezioso contributo affettivo e spirituale per la vita delle loro tre figlie “di pancia”. A raccontarcelo è proprio Greta, la più piccola delle tre, ora mamma di Giona e affidataria di altri giovani ragazzi: nonostante alcuni momenti di fragilità durante l’infanzia dovuti perlopiù all’incomprensione altrui, il bisogno di amore e di famiglia dei suoi fratelli “adottivi” è sempre stato per lei concretezza e quotidianità.

Francesca e Primo vivono un percorso di vita condivisa che presuppone libertà per ciascuno dei membri della famiglia. Per questo motivo hanno dovuto fare i conti anche con il rifiuto. Primo cita la logica dello spreco d’amore di cui parla il Cardinal Martini, sottolineando le difficoltà insite nella logica stessa dell’amore: una logica basata non sul dare e avere, bensì sullo spreco, sul dono senza immediato ritorno. Si tratta della fatica della fraternità, quella che dà il titolo al percorso di TDS di quest’anno, Fratelli o Coltelli, e che ci chiede di percepirci non come isole, ma come comunità.
Don Tonino Bello afferma che l’uomo è un angelo con una sola ala, per volare serve abbracciarsi. Con questa certezza Primo e Francesca continueranno la loro esperienza di vita condivisa con gli ultimi.

Pietro Gamba: lo scandalo del piccolo

La terza domenica di dicembre il percorso Traiettorie Di Sguardi ha scelto di celebrare l’Avvento attraverso la testimonianza di Pietro Gamba, medico bergamasco in missione da 34 anni ad Anzaldo, una delle zone più povere e isolate delle Ande Boliviane. La sua esperienza in Bolivia ci viene mostrata in un primo momento attraverso il filmato “Una vita per gli altri” di Adriano Zecca, poi arricchito dalle parole del protagonista.
La sua missione prende forma già a partire dal 1975, quando, nei panni di un giovane perito meccanico inquieto e desideroso di andare oltre ad una quotidianità comoda, sicura e prevedibile, si reca, come diversivo al servizio militare, a Challviri, dove convive con i campesinos. Questa esperienza si rivela fondamentale per il giovane Pietro che, a contatto con una realtà drammatica in cui i bambini hanno solo il 50% di possibilità di rimanere in vita entro i 5 anni, sceglie di dedicare la sua vita agli ultimi della terra. Torna, quindi, in Italia per laurearsi in medicina. Una volta terminati gli studi universitari, nel 1985, fiducioso, riparte per la Bolivia. Decide di recarsi ad Anzaldo, paese senza acqua, luce, strade né servizi a circa 70 km dalla città di Cochabamba, dove l’anno successivo apre una clinica ospedaliera, con l’aiuto di alcuni amici e collaboratori bergamaschi e grazie al riutilizzo di numerosi macchinari scartarti da altri ospedali.

In questa missione, Pietro non è solo: la moglie boliviana Margarita ne sposa la causa, diventando supporto indispensabile al suo operato. Con lei, anche molti collaboratori e specialisti che dall’Italia sostengono la clinica fornendo materiale, fondi e competenze. Ne è un esempio la storia di Noemi, operata all’anca grazie ad una protesi inviata gratuitamente da Milano, oppure la guarigione di Elias, il quale ha subìto un triplo ricambio valvolare grazie alla collaborazione con la comunità medica italiana, o anche l’esperienza di Edwin che, una volta operato per un osteosarcoma al Rizzoli di Bologna, è potuto tornare in Bolivia. È in questo modo, testimonia Pietro Gamba, che Anzaldo si è paradossalmente trasformato da margine a “centro del mondo”: la sua è diventata una missione di molti, allargandosi oltre i confini della stessa Bolivia e dando vita ad una vera e propria rete, ad un contatto senza frontiere, a dei legami di bene tra Paesi diversi.
Nel 2010, a Bergamo, si costituisce così la Fondazione Pietro Gamba Onlus per poter contribuire e sostenere la sua missione in Bolivia, ma soprattutto per garantirne la continuità, il cui valore, afferma Pietro Gamba, sta soprattutto nell’eredità spirituale, morale ed evangelica dell’esperienza da lui vissuta.
La testimonianza si conclude con un importante monito: “La vita è un regalo che Dio ci fa. La forma in cui la viviamo è il regalo con cui possiamo contraccambiarlo”.

Togliti i sandali e cammina con me

“Togliti i sandali e cammina con me”: ecco l’invito che instancabilmente Elena Maradini, insegnante, counselor e volontaria dell’associazione “Pozzo di Sicar” e dell’unità strada Caritas Parma, ripete alle ragazze della strada nella città di Parma. Un invito col quale ha aperto l’incontro di Traiettorie di Sguardi ieri sera, 17 novembre, per raccontare, senza veli e senza censure, storie di ragazze prostitute sul territorio emiliano. Al suo fianco anche Ilaria Creti, giovane avvocato e volontaria della stessa associazione.

L’incontro, che si apre all’esterno, buio e freddo, come le serate che molte donne sono costrette a vivere, inizia proprio con un breve cammino e la lettura di alcune frasi pronunciate dalle ragazze incontrate da Elena ed Ilaria nel corso degli anni. “Piango perché il mio corpo non mi appartiene più, mi sento umiliata, i clienti mi picchiano, i padroni mi picchiano, i poliziotti si divertono a farmi correre come un leone dietro a una gazzella; piango perché ho paura che qualcuno mi possa uccidere. L’unico amico che mi è rimasto è Dio.”
Così, in modo crudo e tagliente, le due relatrici raccontano di una realtà che lascia senza parole, dove la dignità di molte donne viene calpestata e comprata per pochi euro. Presentano allora quattro oggetti, simboli della loro esperienza di volontarie. Per primo un thermos, riempito di tè caldo o freddo, a seconda delle stagioni, ogni venerdì sera, simbolo dell’accoglienza: il dono del cibo diventa quindi dono di cura e di tempo, capace di instaurare una relazione di fiducia che culmina col racconto più vero delle vite delle giovani donne che incontrano. Mostrano poi delle catene, emblema della schiavitù delle ragazze, soprattutto quelle nigeriane: giovani donne, spesso minorenni, costrette a vendere il proprio corpo per pagare dei debiti esorbitanti, nella speranza, prima o poi, di una vita migliore. Per terra si intravede un terzo simbolo, una banconota da 20 euro, che ricorda di quegli uomini, clienti di ogni età ed estrazione sociale, che si affiancano al marciapiede, mossi dai motivi più disparati, per una prestazione, cercando di mascherare queste brutture sotto le spoglie di un lavoro e di una retribuzione. Infine Elena e Ilaria mostrano un ultimo simbolo: la Bibbia. Le volontarie, infatti, portano in strada la parola di Dio e traducono il Vangelo domenicale in rumeno, inglese e portoghese, perché le ragazze preghino per le loro famiglie, per i volontari, per sé stesse, nel tentativo di “dimenticare i dolori e le sofferenze della settimana”, come ha esordito una volta una delle ragazze.

Le due relatrici ci costringono quindi a fare i conti con un sistema giudiziario inefficace ed impreparato, con un sistema scolastico ed educativo che ancora deve vincere un radicato sessismo, ma soprattutto con la nostra omertà. Non a caso, a conclusione dell’incontro, Elena e Ilaria regalano una frase di Elie Wielsel: “Dobbiamo sempre prendere posizione: la neutralità aiuta l’oppressione, mai la vittima; il silenzio incoraggia il torturatore, non il torturato”. Elena ed Ilaria sono due volontarie coraggiose, determinate, appassionate, che ricordano a tutti che nessuno debba essere dimenticato e che non si possano voltare le spalle a situazioni di gravissima infrazione dei diritti dell’uomo: perché queste ragazze, prima che prostitute (costrette dalle circostanze) sono persone. “Ho tolto i sandali per entrare nelle vostre scarpe con tacco a spillo. […]. Tornerò sulla strada per camminare con voi”: con questa promessa entusiasta e piena di speranza, un vero e proprio invito a non stancarci di camminare con e per coloro che hanno bisogno, chiudono il secondo intervento del ciclo di Traiettorie di Sguardi, che tornerà Domenica 15 Dicembre.

In principio c’è il legame, primo incontro di Traiettorie di Sguardi con Giusi Biaggi e don Cesare Pagazzi

La presidente della cooperativa Sol.co e il direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Crema, Cremona, Lodi, Vigevano e Pavia ospiti al Maristella per il primo appuntamento dell’anno con il percorso intitolato “Fratelli o coltelli. Lo scandalo del noi”

Il primo incontro della nuova stagione di Traiettorie Di Sguardi, intitolata, per l’anno 2019/2020, Fratelli o Coltelli, si apre con un importante quesito: perché e come puntare sulla relazione in una società che, sempre più centrata sull’individuo, sembra additare come sconvenienti, se non addirittura scandalosi, il legame non opportunistico e la comunità?

A condividere con i presenti alcune idee significative, Giusi Biaggi, presidente del consorzio territoriale di cooperative sociali Sol.Co, e don Cesare Pagazzi, direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Crema, Cremona, Lodi, Vigevano e Pavia ed insegnante nei Seminari Riuniti e all’Istituto Giovanni Paolo II di Roma. Seduti ai lati opposti di un intricato percorso di fili colorati, i due ospiti hanno raccontato esperienze e lanciato idee, riflessioni e considerazioni lasciando ai presenti un considerevole e significativo bagaglio di spunti su cui riflettere.

Partendo dalla sua esperienza professionale e di vita, Giuseppina ha recuperato la rilevanza del compito del terzo settore, “far sì che nessuno resti escluso”, per individuare i tre passaggi fondamentali per poter fare comunità: accorgersi di chi si ha intorno, delle gioie e delle fatiche altrui, acuire i propri sensi, in una società che, nonostante sia iperconnessa, paradossalmente conduce ad un sempre più rischioso isolamento sociale; occuparsi dell’altro, rispondere alla chiamata del fratello, denunciando le sue difficoltà e accompagnandolo nel superamento di queste; sentirsi un noi, una comunità, in cui ci si occupa reciprocamente gli uni degli altri, in cui ci si rivolge al fratello non come individui ma come pluralità in relazione, in cui è il noi che agisce, che si fa prossimo. La comunità, infatti, non si riceve, bensì si costruisce quotidianamente nei luoghi di cui ci è dato disporre.

Don Cesare, a partire dall’osservazione secondo cui l’incipit del Vangelo di Giovanni “in principio fu il Verbo” sia da intendere nel duplice significato espresso dalla parola greca logos, vale a dire “parola” e “legame”, ha, invece, riflettuto sull’immagine provocatoria della fraternità offerta dalla Bibbia: non una fraternità fiabesca, sinonimo di unione e inseparabilità, bensì una fraternità omicida, quella di Caino e Abele, in cui la paura di non essere scelto, di essere messo da parte, genera peccato, invidia e rivalità. L’incontro e la relazione con l’altro, con il fratello – inteso nella sua accezione più ampia, al di là dei soli legami di sangue -, viene qui mostrato nella sua intrinseca difficoltà, dettata dal fatto che, oltre a non potersi scegliere a vicenda, la relazione smaschera le paure più profonde dell’essere umano. La sfida contenuta nella relazione è dunque quella di riconoscere le proprie paure e non soccombere ad esse. I due ospiti hanno, dunque, terminato il loro intervento sottolineando come, solamente tramite il contatto con l’altro, l’essere umano possa comprendere se stesso nel profondo.

La verità rende liberi

DOMENICA 14 GENNAIO 2018 –  LA VERITÀ RENDE LIBERI

“Ci sono due tipi di reazioni ostili con cui mi sono scontrato: quella dei fondamentalisti miei compatrioti che hanno lanciato su di me accuse di apostasia, di essermi convertito al cristianesimo e di aver raccontato falsità, e qui in Italia, quella di chi per pregiudizio non si fida di ciò che dico. Non ho cercato di rispondere alle accuse, ho continuato a far conoscere a più persone che potevo la mia esperienza……”.

Ospite

FARHAD BITANI –  Educatore afghano. Ultimo figlio del Generale Mohammad Qasim. È  co-fondatore di Global  Afghan Forum, un’organizzazione internazionale  che si occupa dell’educazione dei giovani afghani.