20 marzo 2011
Silvano Petrosino, docente di Teoria della Comunicazione e di Filosofia Morale all’Università Cattolica di Milano e di Piacenza
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Ho 28 anni e vivo ancora con i miei. Sono laureato e ho fatto un master, ma non ho esperienze di Erasmus all’estero. So usare Photoshop, ma ho una chiavetta Usb che tiene soltanto due giga. Mangio uovo al tegamino una volta la settimana, ma ho il valore del colesterolo un po’ “altino”. Ho studiato giornalismo per non finire a lavorare come segretario; adesso lavoro come segretario per non finire in una redazione a fare lo stagista a 400 euro al mese. Mi presento, sono un giovane disilluso che non può guardare tanto in là, ma che non rinuncia a costruire.
Partiamo dal principio. Sono figlio di mamma e di papà, nato nella cosiddetta “società del consumo”. Alle medie, ho costretto i miei genitori a comperarmi i costosissimi Levi’s 501 per potermi integrare nel gruppo-classe. Peggio ha fatto mia sorella quando era alle superiori: ha acquistato una crema per le ascelle dopo aver guardato una pubblicità che riteneva che quella fosse la parte più bella di una donna.
Ecco il mondo che sto ereditando dalla generazione che mi ha preceduto. Un mondo in cui le persone sentono il bisogno – indotto – di controllare a distanza con il cellulare la temperatura delle zucchine in frigorifero. Un mondo in cui, non mi sento mai in regola e, se non possiedo una cosa, sono di meno. Povero e non eccellente. Hai studiato abbastanza? Conosci l’inglese e il francese, ma sai anche il cinese? Non hai fatto questo corso?, devi fare questo corso. Una parola di potere che genera in me un senso di colpa.
Mi sento imperfetto, anche quando vado in posta a pagare il bollettino dei rifiuti. Mi guardo intorno, imbarazzato. L’occhio mi cade su un volantino che pubblicizza dei prodotti postali: “Volete questo e quello…l’avrete!”, è lo slogan. Ma quando mai?, penso. Solo il serpente offre questo e quello. Solo il serpente dice: “Mangia la mela e diventerai come Dio!”. Non è così. L’eccellenza non è volere sia questo sia quello, superare il limite a tutti i costi. È riconoscerlo, questo limite. È essere uomini, non possedere le cose. Senza commettere l’errore di fare un elogio della povertà. Soltanto – e già non è poco – non facendosi ingannare sul significato della vera ricchezza. E allora, se ricchezza ed eccellenza non sono parole autoevidenti, cosa vuol dire essere ricchi? Qual è lo snodo in cui il figlio al prodigo perde tutto senza perdere tutto? Ebbene, è il rapporto col padre.
Eccolo, allora, il punto di tenuta dell’umano: il rapporto col padre e con la madre. La qualità delle relazioni. Nella favola di Pinocchio, di notte, dopo aver trascorso una giornata nel paese dei balocchi, i bambini si trasformano in ciuchini, cominciano a ragliare e diventano animali. La mattina, però, mentre vengono caricati per andare a lavorare, uno di loro emette un grido: “Mamma!”. Un appello stupendo.
La ricchezza è il rapporto con le origini, con la memoria, con gli amici, con l’esperienza artistica ed estetica con la natura e con il proprio corpo. È questa la sfida. Non cadere nella trappola eccellenza uguale possesso delle cose e non possesso uguale povertà. Non è vero che siamo imperfetti. Bisogna mettersi sul mercato contro Batman e contro la crema per l’ascella. Costruendo delle relazioni, delle idee che non si consumino. Prendiamo il mio caso: non è che uno deve lasciare casa tanto per lasciarla. Un giovane deve andare a vivere da solo per iniziare a costruire. Io ho 28 anni e vivo ancora con i miei. Ma non sono in difetto perché ho deciso di costruire.
Per approfondire:
Il trailer del film “Departures”
Il discorso di Satana a suo figlio nel film “L’avvocato del diavolo”
La scena dell’uovo al tegamino di “V for vendetta”